Adverse Drug Reaction Bulletin AD n. 281/2024

Nr. 281 del 15/10/2024

AD n. 281/2024 Anomalie di imaging correlate all'amiloide nella terapia per l’amiloidosi per la malattia di Alzheimer: una revisione narrativa

Sommario

Le terapie per l’amiloidosi hanno acceso una nuova speranza per una potenziale cura che modifichi l’andamento della malattia di Alzheimer. La terapia per l’amiloidosi ha come bersaglio l'amiloide-beta, che è una caratteristica fondamentale della malattia. Tuttavia, effetti avversi come le anomalie che si riscontrano nella diagnostica
per immagini correlate all'amiloide (amyloid-related imaging abnormalities, ARIA) hanno sollevato notevoli preoccupazioni sulla sicurezza di queste terapie. Le ARIA, che comprendono l'edema vasogenico (ARIA-E)
e le microemorragie o l'emosiderosi (ARIA-H), sono un effetto avverso comune alle terapie antiamiloidi. I fattori di rischio per le ARIA correlate al paziente vedono coinvolto l'allele APOE-ε4 e l'angiopatia amiloide cerebrale (CAA). I fattori di rischio per le ARIA correlate ai farmaci sono dosi più elevate di farmaco, l'inizio precoce del trattamento e l'uso concomitante di farmaci antitrombotici, tutti fattori che aumentano la probabilità di interruzioni vascolari. La gestione delle ARIA prevede un regolare monitoraggio della risonanza magnetica (Magnetic Resonance Imaging, MRI)
ed eventualmente l'interruzione temporanea o permanente della terapia se si sviluppano effetti avversi durante la stessa. Si raccomanda una titolazione graduale della dose per ridurre al minimo il rischio di ARIA. Sebbene le terapie per l’amiloidosi abbiano dimostrato efficacia nel ridurre il carico di amiloide, il beneficio clinico rimane, nel migliore dei casi, modesto e deve essere soppesato con i rischi di sviluppare effetti avversi come le ARIA.


Storia e scoperta della terapia per l’amiloidosi

Da quando è stata scoperta la betamiloide come componente principale della formazione delle placche nella malattia di Alzheimer, (1,2) sono state condotte molte ricerche per agire sulla sua formazione. (3) La betamiloide (β-amiloide) deriva dalla scissione della proteina precursore dell'amiloide (APP) da parte della γ-secretasi e della β-secretasi (BACE1), che produce vari peptidi della betamiloide, in primo luogo la betamiloide 40 (Aβ40) e la beatmiloide 42 (Aβ42), che possono aggregarsi in diverse strutture, tra cui monomeri di betamiloide, oligomeri solubili, protofibrille e infine fibrille amiloidi insolubili, stabili grazie alla loro struttura a foglietti-β incrociati (cross-β-sheet structure). (4) Già nel 1999 è stato dimostrato in studi sugli animali che l'immunizzazione attiva potrebbe essere una strategia efficace per rimuovere l'amiloide beta, (5) che ha portato alla prima sperimentazione sull'uomo nel 2001. Questo studio è stato interrotto a causa degli effetti avversi, tra cui ARIA e meningoencefalite nel 6% dei partecipanti, forse a causa di una risposta incontrollata delle cellule T. (6) Uno dei primi studi con immunizzazione passiva contro la betamiloide è stato quello con il bapineuzumab nel 2012, che ha avuto come bersaglio gli aggregati di betamiloide e ha mostrato una riduzione delle placche amiloidi, ma non ha dimostrato benefici clinici significativi sul declino cognitivo. (7) Nel 2016 è stato sviluppato il solaneuzumab, che non solo ha preso di mira la betamiloide solubile, ma non ha mostrato un miglioramento cognitivo significativo nei pazienti. (8) Entrambi gli studi sul bapineuzumab e sul solaneuzumab sono stati interrotti perché non hanno mostrato un effetto significativo sulla funzione cognitiva, il che potrebbe essere spiegato dal basso dosaggio o dalla mancanza di regimi di titolazione del farmaco come quelli utilizzati negli studi con l'aducanumab e dalle differenze nelle caratteristiche dei pazienti, soprattutto perché gli studi sul bapineuzumab e sul solaneuzumab includevano pazienti con malattia lieve o moderata, mentre gli studi sull’aducanumab includevano solo pazienti con malattia lieve. (7–9) Questi motivi evidenziano le varie complessità nel bilanciare i rischi di effetti avversi con l'efficacia delle terapie per l’amiloidosi. L’aducanumab ha come bersaglio gli aggregati di fibrille e gli oligomeri della betamiloide ed è stato testato negli studi EMERGE ed ENGAGE di fase III, che hanno mostrato una riduzione significativa della placca amiloide e una riduzione significativa del declino cognitivo di 0,39 sulla scala CDR-SB nello studio EMERGE. Non ha raggiunto l'endpoint primario nello studio ENGAGE. (9) Il lecanemab ha come bersaglio le protofibrille β-amiloidi solubili e gli studi di fase III hanno mostrato un rallentamento statisticamente significativo del declino cognitivo di 0,45 rispetto al placebo nell'arco di 18 mesi sulla scala CDR-SB con un profilo di sicurezza più favorevole rispetto all’aducanumab. (10) Nel 2023, il donanemab, che ha come bersaglio la betamiloide modificata dal piroglutammato, è stato testato nello studio di fase III TRAIL-BLAZER-ALZ, dove ha portato a una riduzione delle placche amiloidi e a un rallentamento del declino cognitivo misurato sulla scala CDR-SB con una differenza di 0,7 rispetto al placebo. (11) Anche se gli studi hanno mostrato un significativo rallentamento del declino cognitivo, va notato che questi risultati sono stati misurati con la scala CDR-SB, che valuta sia la cognizione che le prestazioni pratiche. È stato riportato che è necessaria una differenza di 1-2 punti per un declino clinicamente rilevante, sottolineando così l'attuale mancanza di effetti clinici tra le terapie per l’amiloidosi disponibili. (12)
Sia l’aducanumab che il lecanemab sono attualmente approvati dalla Food and Drug Administration (FDA), insieme al donanemab, che ha ricevuto l'approvazione della FDA nel luglio 2024. Tuttavia, sia l’aducanumab che il lecanemab sono stati respinti dall'Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) rispettivamente nel giugno 2021 e nel luglio 2024. (13,14)

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