INTERVENTO Tra le caratteristiche delle lesioni anatomiche cerebrali nel Parkinson c’è l’aumento delle concentrazioni di ferro a livello della substantia nigra tanto che si pensa che questo deposito possa contribuire alla fisiopatologia della malattia. Partendo da questo presupposto è stata ipotizzata l’utilità di un chelante del ferro, come il deferiprone, per migliorare la prognosi di questi pazienti. A oggi diversi studi hanno mostrato l’efficacia del farmaco nel ridurre i depositi di ferro nigrostriatali ma nessuno aveva indagato le conseguenze sulla clinica. A fronte della riduzione del ferro si ha un miglioramento o un rallentamento della sintomatologia parkinsoniana?
Per rispondere a questa domanda uno studio controllato e randomizzato sponsorizzato multicentrico di fase 2 ha arruolato 372 pazienti con Parkinson, mai trattati con levodopa e con sospensione della terapia dopaminergica, assegnandoli al farmaco in esame (deferiprone per bocca 15 mg pro chilo di peso corporeo due volte al giorno) o a un placebo per 36 settimane, valutandone gli esiti su una scala validata (da 0 a 260 con i punteggi più alti a indicare le forme più gravi di Parkinson).
RISULTATI A causa della progressione dei sintomi parkinsoniani si è dovuto ricorrere a una terapia dopaminergica nel 22,0% dei pazienti trattati con il chelante del ferro e nel 2,7% dei soggetti di controllo. Di partenza il punteggio clinico medio di entrambi i gruppi si attestava tra 33 e 34, a 36 mesi si è avuto un peggioramento di 15,6 punti nei trattati con il farmaco e di 6,3 punti nei trattati con il placebo (differenza: 9,3 punti, p<0,001).
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